Prof. Jacopo Recupero

La serie di dipinti che Paolo Petrucci ha scelto per questa sua personale è il frutto di un soggiorno negli Stati Uniti d’America, una specie di diario, in cui, giorno per giorno, egli ha annotato le visioni di quel mondo nuovo e sconcertante. Vi è nella rievocazione come un senso di attonito timore, un che di allucinato, per l’avventura vissuta in quel paesaggio disumano, dominato dalla geometria delle enormi masse di cemento armato, ch’è la città di New York. Ed era naturale ne risultasse un resoconto che sa di incubo, quando si pensi all’ambiente in cui l’artista si è formato e ai suoi interessi figurativi della precedente produzione: qui il gigantismo di una edilizia soffocante, le prospettive sature di muri impenetrabili, la privazione d’un orizzonte naturale, la mancanza d’un segno di presenza umana, i neri opprimenti d’un cielo notturno invisibile, le dissonanze aggressive delle insegne, rivivono in una materia corposa che ne esalta i valori cromatici ed esaspera espressionisticamente il senso di scoramento e di solitudine. Le varie visioni affollano la superficie in un susseguirsi continuo di piani, che fanno appena intuire gli spazi intercorrenti fra edificio ed edificio, come se nell’addensarsi del tessuto urbano ci sia soltanto luogo per i volumi squadrati delle costruzioni; la tavolozza, già così ricca e calda in talune sanguigne immagini di Roma, s’è raggelata nella gamma delle tonalità fredde, suggerita in parte dal clima ambientale, e, molto di più, dallo stato d’animo dell’europeo, trasferito improvvisamente da una realtà familiare di visioni sempre rapportate alla misura umana, in una dimensione affatto inconsueta e quasi angosciosa, in cui l’uomo è stato sopraffatto e la sua personalità schiacciata, in nome d’una civiltà meccanizzata, mostruosamente livellatrice.
Jacopo Recupero, 1967