Nicola Dal Falco - Scrittore,poeta, critico letterario, critico d'arte, giornalista

Con la strada in grembo

La mostra serve a conoscere meglio l’animo del pittore, è il suo modo di dire senza troppe riserve, affrancandosi dalla riservatezza che, nella vita di tutti i giorni, dovrebbero caratterizzare i sentimenti.

Un momento di sincerità talentuosa che per Pippo Pace non si limita solo alla pittura, ma abbraccia anche lo scrivere e, in maniera più radicale, il senso del ritmo.

È stata questa la sua prima forma di espressione. Il lasciarsi trasportare dal tamburellare delle dita e dei palmi delle mani. Arti superiori che hanno sopperito con grazia alla malagrazia di quelli inferiori, testimoniando una rapidità altrimenti impossibile.

Di questo duro confronto tra apparire ed essere, Pace si è nutrito, acquistando la vera padronanza di sé che deriva dalla capacità di raccontarsi.

Mascherare una ferita, ignorarla o abbellirla è solo stupido. Ben diverso è riconoscerla, offrendole, gentilmente il braccio. Prima di ogni altro quadro, bisognerebbe fissare con altri occhi quelli che Pace dedica alla strada e, metaforicamente, al viaggio.

La strada se la porta in grembo come il serpente arcobaleno dei nativi australiani, la mappa argentata di Muhammad al-Idrisi, il filo d’Arianna che condusse l’eroe al cospetto della Bestia. Esemplari in tal senso sono Pali del telefono, Prime luci, Borgo sulla strada statale, Guard rail, Tramonto sullo stretto, ma anche Paese in collina e Contrasto di luce.

Nei suoi quadri, quasi tutti giocati su una misura (60 x 80 cm) i colori sono cadenzati su un registro tenue, passati al setaccio di un calcolato, quasi rimandato, abbandono.

Eppure, l’uso esclusivo dell’acrilico, che asciuga velocemente, costringe il pittore a non tardare nell’esecuzione e gli toglie, di proposito, l’uscita di sicurezza del ripensamento.

Non è possibile ripassare su quanto è stato fatto, si può solo aggiungere quella sfumatura, sottraendola senza troppe esitazioni alla maturazione dell’idea.

Lo stato d’animo che più si avvicina è quello di una vigile sospensione di sensazioni, un darshan come direbbero gli indù.

La pittura scaturisce, cioè, dal doppio sguardo del pittore e dell’oggetto o la situazione ritratta. È anche la cosa che ti guarda e dalla reciproca compenetrazione, da un incrocio protratto di occhiate, nasce una pennellata che si misura, unendosi alla realtà al di là dell’immediata concretezza.

La scena si assottiglia o si moltiplica a seconda che prevalga l’allontanamento verso l’orizzonte, linea inattingibile (è il caso di Metropoli, La quiete) o la quinta cittadina (vedi Temporale d’agosto, Verso la piazza, Proscenio, Paesaggio all’imbrunire, Periferia ovest).

Comiso fa parte del sogno barocco siciliano: è, nella sua parte monumentale, ordine, piano regolatore delle catastrofi e macchina teatrale.

Proprio qui, in una linea che interseca simbolicamente l’ombra e la luce, troviamo sia il pessimismo leopardiano, aforistico di Gesualdo Bufalino (Il Malpensante Lunario dell’anno che fu) sia, tangente e complementare, la commedia, sempre umana, salace, addirittura goliardica, di Peppe Di Giacomo (Pettine dolce).

È il δῆμος che si racconta e nel farlo inventa e rinventa la città che lo ospita per una scelta condivisa, lontana dai furori della natura (il mare che ti circonda e il cielo che ti sovrasta) tutto assorbito in un altro spettacolo che lo atterra e conforta al tempo stesso, sembrandogli però più vicino al cuore e alla mente.

Pace utilizza la città a volte come un’isola di pietra, allungata in una sorta di laguna, posta a uguale distanza dalla meraviglia e dalla malinconia; altre volte, come quinta dove l’ordine degli edifici non rispetta il punto di vista scelto, ma ne ingloba diversi.

Lo sforzo non è di integrarsi alla realtà, ma, piuttosto, di integrare questa nella dimensione plurima che la riguarda. Perciò, in alcuni soggetti (Linea di confine, Scomposizione cromatica 1 e 2) i confini delle cose s’incamminano, spingendo oltre, allungandosi, sbordando, dissolvendosi e aggrumandosi di nuovo; mostrando che i molti semi hanno messo radici da qua a là, da sotto a sopra.

Di più. La percezione del reale sembra presupporre una tensione verticale, ascensionale che si appalesa in un quadro come Trascendenza.

Celeste e terreno non potranno mai ignorarsi e come nel culmine del pathos religioso, durante le grandi processioni isolane, il rito dà conto della vibrazione tra il polo elettrico per l’attesa di un cenno e quello liberatorio dell’esaudimento. Ancora e sempre una questione di sguardi.

A Pippo Pace non è, infine, estraneo il sentimento lirico della natura. Il suo manifestarsi in forme musicali, dove l’accordo nasce dall’incanto, da un momento di allegrezza per tutti i sensi riuniti (Prato in festa, Papaveri in festa, Contrasto termico e cromatico, Riflessi sul lago).

Lirismo che non trascura (La lupa) come la bellezza possa avverarsi anche nell’imminenza di un improvviso cambiamento.

Nicola Dal Falco


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