Lucio Del Gobbo - 2005 "DI SERGIO GRAZIOSI, IL FINITO...NON FINITO"
La ricerca figurativa di Sergio Graziosi ha sempre avuto una forte caratterizzazione autobiografica, nel senso che ogni immagine prodotta, anche se leggibile e definita in sé, ha trovato rimando in vicende personali, sia pure trasfigurate da un filtraggio subcoscienziale. Introdurre nella rappresentazione un coacervo di sensazioni, sì riferite alla realtà narrata, ma alla luce di una sensibilità affinata da un vissuto "sofferto", assunto e spesso alterato in virtù di una tattica sottilmente catartica: questa la formula d'uso. Da qui un'estrema variabilità tipologica di temi, e una proposizione ciclica di generi linguistici a dir poco spiazzante, mai ripetitiva e mai conformista.
La poesia e il teatro, due grandi passioni di Graziosi, hanno continuamente influito sulla sua visione e sulla scelta dei motivi. I volti dei suoi personaggi appaiono come scolpiti da una luce di riflettori: su un palcoscenico resi irreali e al tempo stesso emblematici. L'effetto solarizzante usato nei ritratti degli ultimi anni come strumento di sintesi in riferimento al personaggio non è che l'estrema conferma di tale strategia. Una visione estraniata di proposito, da osservatore solitario ed incognito, da sentinella confinata "fuori", come il tenente Drogo descritto dal suo amico Buzzati ne Il Deserto dei Tartari. La visione di un esiliato, insomma. E' capitato di dirlo in altre occasioni: Graziosi amava sentirsi in esilio, era il suo modo di considerare la realtà: una situazione di presunta costrizione, che lo relegava ad essere spettatore a distanza, non attore prottagonista ma osservatore critico e implacabile relatore. Questa la sua ribellione, questo il suo eroismo: una forza proveniente da una grande fragilità, dalla sensazione di una inalienabile precarietà di tutto: visione dolente e però attratta da tale condizione di non appartenenza e di esilio.
A proposito del "finito...non finito" da cui trae spunto e titolo la presente mostra: dietro ad esigenze di pura necessità tecnica (il fatto dei tempi di essicazione, necessariamente lunghi, del colore ad olio e la conseguente messa in opera di più lavori in contemporanea), alla luce anche della accuratezza riscontrabile nel resto della produzione, ove la raffinata composizione e lo scrupolo esecutivo danno invece luogo a risultati formalmente ineccepibili, non è escluso si nascondesse l'urgenza di esprimere la transitorietà stessa dell'immagine e del suo formarsi, l'incertezza di un immaginario soggetto alle traversie dell'esistere. Luci rosate, luci giallastre, volti lividi, fondali chiaramente falsi; qui ad essere sintetizzata al posto di un singolo personaggio è la situazione, ed in essa un rimescolarsi di fantasia e di ricordo. Tra i ricordi, naturalmente, anche quelli di spettatore incallito, di habituè di teatri. E la scelta di soggetti fantastici e particolarmente ameni, sembra studiata per rifuggire la realtà dolorosa di un periodo, tra gli anni sessanta e settanta, in cui a Graziosi erano venuti meno gli affetti familiari più sacri e profondi: ancora un modo, ironico e spietato, di nascondere e vivere la sua più intima verità
La poesia e il teatro, due grandi passioni di Graziosi, hanno continuamente influito sulla sua visione e sulla scelta dei motivi. I volti dei suoi personaggi appaiono come scolpiti da una luce di riflettori: su un palcoscenico resi irreali e al tempo stesso emblematici. L'effetto solarizzante usato nei ritratti degli ultimi anni come strumento di sintesi in riferimento al personaggio non è che l'estrema conferma di tale strategia. Una visione estraniata di proposito, da osservatore solitario ed incognito, da sentinella confinata "fuori", come il tenente Drogo descritto dal suo amico Buzzati ne Il Deserto dei Tartari. La visione di un esiliato, insomma. E' capitato di dirlo in altre occasioni: Graziosi amava sentirsi in esilio, era il suo modo di considerare la realtà: una situazione di presunta costrizione, che lo relegava ad essere spettatore a distanza, non attore prottagonista ma osservatore critico e implacabile relatore. Questa la sua ribellione, questo il suo eroismo: una forza proveniente da una grande fragilità, dalla sensazione di una inalienabile precarietà di tutto: visione dolente e però attratta da tale condizione di non appartenenza e di esilio.
A proposito del "finito...non finito" da cui trae spunto e titolo la presente mostra: dietro ad esigenze di pura necessità tecnica (il fatto dei tempi di essicazione, necessariamente lunghi, del colore ad olio e la conseguente messa in opera di più lavori in contemporanea), alla luce anche della accuratezza riscontrabile nel resto della produzione, ove la raffinata composizione e lo scrupolo esecutivo danno invece luogo a risultati formalmente ineccepibili, non è escluso si nascondesse l'urgenza di esprimere la transitorietà stessa dell'immagine e del suo formarsi, l'incertezza di un immaginario soggetto alle traversie dell'esistere. Luci rosate, luci giallastre, volti lividi, fondali chiaramente falsi; qui ad essere sintetizzata al posto di un singolo personaggio è la situazione, ed in essa un rimescolarsi di fantasia e di ricordo. Tra i ricordi, naturalmente, anche quelli di spettatore incallito, di habituè di teatri. E la scelta di soggetti fantastici e particolarmente ameni, sembra studiata per rifuggire la realtà dolorosa di un periodo, tra gli anni sessanta e settanta, in cui a Graziosi erano venuti meno gli affetti familiari più sacri e profondi: ancora un modo, ironico e spietato, di nascondere e vivere la sua più intima verità